La parola “anoressia”, che alla lettera significa mancanza di appetito è, paradossalmente, la meno adatta per definire quel rifiuto del cibo che si instaura nella cosiddetta anoressia mentale. Nell’anoressia mentale non vi è mancanza di appetito, non manca il desiderio del cibo, ma si stabilisce un rifiuto: rifiuto del cibo, determinazione a sopprimerne la necessità fisiologica e vitale. L’anoressica intraprende, portandola a conseguenze serie e talvolta estreme a livello psichico e fisico, una lotta contro il cibo, visto come qualcosa che può far soltanto ingrassare . L’”oggetto” cibo è una minaccia per l’immagine del corpo magro.
L’anoressica vagheggia e poi persegue l’idea di un corpo che potrebbe/dovrebbe funzionare senza cibo, restando efficiente, attivo e produttivo nonostante la privazione e a dispetto del deperimento organico: un corpo affrancato, emancipato dalla dipendenza, dal nutrimento.
Inconsciamente poter fare a meno di nutrirsi significa poter fare a meno di tutto, dell’Altro tout court : “allora non mangio più!” è un dispetto o un piccolo ricatto a cui il bambino impara presto a ricorrere, non appena capisce - e lo capisce ancor prima di saperlo dire con le proprie parole - che l’Altro ci tiene a lui e al fatto che lui mangi.
Da questo primordiale momento in poi, per tutto l’arco della vita, l’apprezzamento del cibo offerto sarà sempre segno di vita, di legame sociale, di rapporto civile, di piacere dell’incontro e della condivisione ospitale tra gli esseri umani. Nell’anoressia il rifiuto del cibo si reitera, si rinsalda, si riconferma di fronte ad ogni scacco narcisistico: “posso farne a meno” è un enunciato che, con la sua rigida intransigenza, copre appena la fragilità della posizione soggettiva nell’anoressia, poiché proprio di questo l’anoressica non può fare a meno, cioè di pensarsi e rappresentarsi assolutamente libera da qualunque dipendenza indotta dall’essere un “essere umano” , abitato perciò da bisogni e desideri e alle prese con le proprie mancanze ed incognite.
Una anoressica, digiunando, "vuole" tenersi la fame e la fame può agire come un potente anestetico rispetto al dolore psichico; la fame ottunde e quando un certo punto di privazione, di astensione dal cibo è toccato, la fame annulla la fame stessa e così succede – infine – di non avvertire davvero più alcun bisogno di nutrirsi, ma questo rischia purtroppo di essere un punto di non ritorno. Prima di arrivare a ciò vi è un percorso di “ammalamento”, a lungo denegato, misconosciuto e mascherato, quasi sempre, da euforia, iperattività: “io? io sto benissimo !…non capisco perché gli altri siano preoccupati per me!”, è una frase ricorrente, fino alla monotonia, che caratterizza spesso anche i primi approcci psicoterapeutici, spesso subìti come una forzatura, da parte dei genitori, soprattutto quando l’età di insorgenza dei sintomi dell’anoressia è precoce (la pubertà, la prima adolescenza).
La questione del trattamento riguarda la possibilità di rimettere in gioco quel rifiuto su cui l'anoressica é fissata e che cerca di mantenere anche a rischio della propria vita; si tratta di offrire un'opportunità perché questa "soluzione" disperata possa essere rivista e finalmente affrontata come un problema.
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