La psicoanalisi pone il problema seguente: come un soggetto può vivere con altri senza rinunciare a ciò che è e senza che questo disfi il legame che lo mantiene nella comunità, a partire dalla famiglia fino alle istanze sociali più diverse, comprese quelle cosiddette alternative. L’essere, infatti è sempre singolare, unico, mentre qualsiasi comunità si fonda sulla norma. Si tratta dunque di mettere insieme la regola e la sua eccezione. Che lo sappia o no, ciascuno inventa una sua soluzione, il sintomo, di cui soffre più o meno. Alcuni sintomi sono così costosi da assorbire tutte le energie del soggetto e da condizionare ogni aspetto della sua vita, dentro e fuori casa. Capita, allora, che si rivolga agli specialisti psi. La psichiatria pretende di essere una scienza, ma la scienza deve essere oggettiva e universale, i suoi precetti devono valere per tutti, a prescindere dall’eccezione. Anche la psicologia si sforza di fare del soggetto un oggetto della scienza, diluendo le particolarità in serie omologhe, almeno nei comportamenti: qualunque procedura di test sottintende un rapporto di causalità diretta ed univoca tra azione e re-azione. L’una e l’altra, per trattare efficacemente il loro oggetto, lo mettono a tacere. Freud ha inventato la psicoanalisi per accogliere il soggetto della parola e farne l’autore della scienza che lo riguarda, e Lacan, sostituendo al termine di “analizzato” quello di “analizzante”, ha evidenziato anche nella forma il ruolo di agente che spetta a chi intraprende un’analisi. L’analisi comincia quando il soggetto considera il suo sintomo non solo un handicap, ma anche un enigma, che racchiude la causa e la storia del suo star male. Durante l’analisi, il soggetto reperisce gli elementi pulsionali e quasi biografici che lo hanno portato ad adottare il tipo di sintomo di cui ora soffre e in cui ha legato e concentrato la sua particolarità per difenderla dagli altri ma anche per difendersene. L’analisi termina quando il soggetto avrà accettato la propria diversità facendone il suo stile.
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